La chiesa del Gesù Nuovo Breve guida artistica Eleonora Ferraro, Storico dell'Arte |
Notizie storiche
La chiesa del Gesù Nuovo, con le adiacenti fabbriche della Casa Professa e del Palazzo delle Congregazioni, costituiva il complesso più importante e prestigioso fondato a Napoli dalla Compagnia di Gesù. La chiesa nacque dalla trasformazione di uno dei palazzi più belli della Napoli rinascimentale: quello dei Sanseverino, principi di Salerno, costruito nel 1470 dall’architetto Novello da San Lucano.
[Foto Eleonora Ferraro] |
Il palazzo visse la sua stagione d’oro con Ferrante Sanseverino, ultimo e più famoso dei principi salernitani. Tuttavia, a seguito del suo coinvolgimento nella rivolta del 1547 contro il viceré don Pedro de Toledo, cagionata dal tentativo di quest’ultimo di introdurre nel Regno l’Inquisizione spagnola, Ferrante cadde in disgrazia e i beni di famiglia furono confiscati e messi in vendita: fu così che i Gesuiti, nel 1584, acquistarono la dimora nobiliare per la ragguardevole somma di 46.000 ducati.
La scelta dei religiosi non era stata casuale: il palazzo, infatti, oltre a prospettare su una delle rare piazze cittadine, con opportune modifiche e con una spesa moderata poteva essere trasformato in un edificio di culto, venendo così incontro anche alla richiesta degli Eletti della Città di Napoli di non demolire la cosiddetta "reggia dei Sanseverino". I lavori, finanziati da Isabella Feltria della Rovere, principessa di Bisignano, furono affidati all’architetto gesuita Giuseppe Valeriano che, sfruttando le aree interne del palazzo e del giardino, realizzò un tempio con impianto planimetrico a croce greca (il braccio longitudinale è leggermente allungato), racchiuso nel perimetro del palazzo quattrocentesco, sfruttando i paramenti murari già esistenti.
Questi ultimi, comprendenti anche la facciata, erano formati da bugne di piperno tagliate a forma di diamante: una particolarissima apparecchiatura muraria che rappresentava un unicum nel panorama dell’architettura napoletana e che in Italia conta esempi nei palazzi Bevilacqua a Bologna, dei Diamanti a Ferrara e in quello detto lo Steripinto a Sciacca. Da ricordare, inoltre, che le bugne dell’edificio napoletano presentano sulla superficie delle singolari incisioni: si tratta dei cosiddetti contrassegni dei lapicidi, ossia sigle lasciate dagli scalpellini a mò di firma per consentire al capocantiere di verificare il numero delle pietre lavorate, in modo da poter attribuire ad ogni operaio il corrispondente pagamento.
La chiesa, consacrata il 7 ottobre 1601, fu intitolata alla Madonna Immacolata, ma fin da subito fu comunemente detta del Gesù Nuovo per distinguerla dall’altra preesistente chiesa della Compagnia, detta di conseguenza Gesù Vecchio. L’ingresso in chiesa è seguito da una sensazione di profondo stupore e meraviglia per la straordinaria ricchezza decorativa dell’interno che, malgrado il dominante tono barocco, è stata realizzata in un lasso di tempo che va dai primi anni del Seicento a tutto il Novecento.
Il Gesù Nuovo si configura dunque come una sorta di scrigno che custodisce un repertorio quanto mai vasto della produzione artistica napoletana, alla cui realizzazione concorsero non solo protagonisti affermati tra cui Giovanni Lanfranco, Cosimo Fanzago, Luca Giordano e Francesco Solimena, ma anche tanti artigiani, come intagliatori, scalpellini, ottonari e stuccatori, che con la loro maestria contribuirono ad accrescere la magnificenza della chiesa. È il caso, ad esempio, dei numerosi marmorari che dal Seicento in poi si sono avvicendati per completare il rivestimento marmoreo di tutte le superfici murarie (cappelle comprese) e del pavimento.
Una delle opere più celebri del Gesù Nuovo è senza dubbio l’affresco della controfacciata raffigurante la Cacciata di Eliodoro dal Tempio, indiscusso capolavoro della maturità di Francesco Solimena, firmato e datato 1725. Veri e propri cicli ad affresco ricoprono invece le volte del transetto e della navata centrale con raffigurazioni ispirate alla storia dell’ordine. Nel primo tratto della navata centrale, ad esempio, i dieci riquadri della volta a botte sviluppano il tema del Nome di Gesù, da cui la Compagnia trae la sua denominazione: gli affreschi furono eseguiti da Belisario Corenzio tra il 1636 e il 1638 ma, sul finire del XVII secolo, i due riquadri centrali furono ridipinti da Paolo de Matteis con il Trionfo dell’Immacolata e di San Michele sui demoni e la Circoncisione di Gesù.
L’intervento del de Matteis interessò anche i due bracci del transetto: in quello di destra, dove il Corenzio aveva affrescato le Storie di San Francesco Saverio (1634-1637), rifece lo scomparto centrale con la Predicazione del Santo (1698), mentre in quello di sinistra ritoccò le Storie di Sant’Ignazio di Loyola, anch’esse del Corenzio, e ridipinse le due lunette ai lati del finestrone centrale dove appose anche la sua firma. Questi interventi furono dettati dalla necessità di porre rimedio agli ingenti danni del terremoto del 1688, che aveva causato il crollo della cupola e di parte del transetto sinistro, oltre ad altri dissesti che avevano interessato alcune cappelle minori.
Infine, nella volta e nelle semilunette ai lati del finestrone della tribuna, un vasto ciclo mariano articolato in 12 riquadri fu affrescato da Massimo Stanzione tra il 1639 e il 1640, in sostituzione di quello eseguito da Belisario Corenzio tra il 1618 e il 1620, distrutto da un incendio nel 1639.
La cupola
La cupola della chiesa fu costruita tra il 1629 e il 1634 dall’architetto fratel Agazio Stoia ed affrescata da Giovanni Lanfranco tra il 1635 e il 1636. Crollata a seguito del terremoto del 1688, ne sopravvivono solo i quattro Evangelisti raffigurati nei pennacchi, uno dei quali, il San Matteo, reca la firma LANFR/AN/CUS. Distrutta anche la seconda cupola costruita da Arcangelo Guglielmelli e affrescata da Paolo de Matteis tra il 1713 e il 1717, l’odierna scodella realizzata in cemento armato nel 1973 è la copia della terza cupola costruita da Ignazio di Nardo intorno al 1786 e poi distrutta per problemi strutturali.
Lo spazio sottostante ospitava un antico pulpito in legno intagliato e scolpito, sostituito nel 1858 da quello attuale in marmi policromi commessi, realizzato dal De Gasparre ed addossato ad uno dei pilastri per non disturbare la visione speculare degli altari dei cappelloni di Sant’Ignazio di Loyola e di San Francesco Saverio.
LA NAVATA DESTRA
Cappella di S.Carlo Borromeo
La prima cappella della navata destra è dedicata a San Carlo Borromeo, personaggio di spicco della Controriforma, nonché amico e protettore della Compagnia di Gesù. Il Santo, arcivescovo di Milano, fu raffigurato in estasi nel dipinto che sovrasta l’altare da Giovan Bernardo Azzolino, autore anche del ciclo ad affresco della volta, illustrante la sua opera di assistenza a favore degli appestati (1618-1620).
Contestualmente Costantino Marasi e Vitale Finelli, con l’aiuto di un’equipe di marmorari, realizzarono il rivestimento marmoreo dell’intera cappella (compresi il pavimento e la balaustra) caratterizzato da una decorazione estremamente rigorosa nei disegni e nei colori. Danneggiati dai bombardamenti del 1943, i marmi furono sottoposti ad un accurato intervento di restauro. I rilievi scultorei qui presenti sono opera di Cosimo Fanzago.
La cupoletta esterna fu affrescata da Giuseppe Simonelli alla fine del XVII secolo con Simboli della Passione, mentre l’Azzolino vi realizzò nei pennacchi le figure dei Dottori della Chiesa, contemporaneamente agli affreschi eseguiti all’interno della cappella. Uscendo dal sacro ambiente, sul primo pilastro che separa la navata centrale da quella laterale si può ammirare un Crocifisso della seconda metà del XVIII secolo attribuito a Francesco Pagano.
Cappella della Visitazione
La cappella successiva, dedicata al tema della Visitazione, vide impegnati nella realizzazione della sua veste decorativa alcuni dei più grandi nomi del panorama artistico napoletano di metà Seicento: Cosimo Fanzago tra il 1660 e il 1666 ne ultimava il rivestimento marmoreo, portando a termine un lavoro avviato nel 1650 da Donato Vannelli e Antonio Solaro; Massimo Stanzione dipingeva la pala d’altare con la Visitazione, completata dal suo allievo Santillo Sannino intorno al 1660, mentre tra il 1684 e il 1685 Luca Giordano affrescava le Storie del Battista nella volta e San Giuseppe e il Profeta Isaia ai lati del finestrone.
Nella cupoletta esterna Gaetano d’Apuzzo affrescò il Sacrificio di Aronne nel 1790, in sostituzione del Trionfo di Giuditta del Giordano, distrutto dal terremoto del 1688, che aveva anche ritratto nei pennacchi quattro Eroine dell’Antico Testamento, tuttora visibili.
In questa cappella si celebra il culto di San Giuseppe Moscati (1880-1927), medico, ricercatore e docente universitario canonizzato da Giovanni Paolo II il 25 ottobre 1987. Sepolto nel Cimitero di Poggioreale all’interno della Cappella dell’Arciconfraternita della SS. Trinità dei Pellegrini, dopo tre anni, a seguito delle numerose istanze presentategli, l’Arcivescovo di Napoli, Card. Ascalesi, stabilì che le spoglie mortali del cosiddetto “medico santo” fossero trasferite nella chiesa del Gesù Nuovo, dove Moscati era solito raccogliersi in preghiera ogni mattina, prima di iniziare la giornata lavorativa.
La traslazione ebbe luogo il 16 novembre 1930 ed il corpo fu tumulato sul lato destro dell’altare di San Francesco Saverio. Beatificato nel 1975, dopo due anni, a seguito della ricognizione canonica, i suoi resti mortali furono deposti in un’urna bronzea appositamente realizzata da Amedeo Garufi, collocata sotto l’altare di questa cappella. Sulla fronte principale dell’urna, tre bassorilievi illustrano altrettanti momenti significativi della vita del giovane medico, morto a soli 47 anni.
di S.Giuseppe Moscati |
Procedendo da sinistra verso destra, Moscati è infatti raffigurato in cattedra circondato dai suoi allievi, nell’atto di confortare una mamma con il suo bambino e, infine, accanto al letto di un ammalato. Dopo la canonizzazione, nel 1990 Pier Luigi Sopelsa forgiò una statua in bronzo del Santo che contribuisce a rendere la sua figura presente ai numerosi fedeli.
Cappella di San Francesco Saverio
Il cappellone di San Francesco Saverio, corrispondente al braccio destro del transetto, esalta la figura dell’iniziatore delle missioni gesuitiche in India e in Giappone. A lui sono dedicati i già ricordati affreschi della volta di Belisario Corenzio e di Paolo de Matteis, il quadro sull’altare di Giovan Bernardo Azzolino del 1640 che lo raffigura in estasi, e i tre dipinti dell’ordine superiore di Luca Giordano, realizzati tra il 1676 e il 1677, raffiguranti al centro il Santo caricato delle croci, a destra il Santo che battezza gli Indiani e, a sinistra, il Santo che miracolosamente ritrova il crocifisso tra le chele di un granchio.
Una modesta statua lignea, collocata sotto l’altare nel 1934, ne ricorda la morte solitaria avvenuta nell’isola cinese di Sanciàn. Nella messa a punto del ricco rivestimento marmoreo del cappellone furono impegnati, tra il 1642 e il 1655, Donato Vannelli, Antonio Solaro e Giuliano Finelli. Le statue delle nicchie che fiancheggiano la pala d’altare, rappresentanti Sant’Ambrogio e Sant’Agostino e provenienti dalla cappella di San Carlo Borromeo, sono opera di Cosimo Fanzago.
Le pareti laterali del cappellone ospitano due dipinti: a destra la Madonna del Rosario con i quindici misteri, firmata da Fabrizio Santafede, e, a sinistra, Sant’Anna con la Vergine bambina e Santi, eseguita da Ludovico Mazzante tra il 1735 e il 1737. All’organizzazione degli spazi architettonici, speculare a quella del cappellone di Sant’Ignazio di Loyola, non fu probabilmente estraneo Cosimo Fanzago.
Dalla porta a sinistra dell’altare si accede all’Oratorio di San Giuseppe Moscati, dove sono esposti ricordi e foto del Santo, un’operazione resa possibile grazie al generoso lascito di Nina Moscati, sorella del professore, che ha donato alla chiesa del Gesù Nuovo mobili, vestiti e suppellettili del fratello, dando così modo di ricrearne anche lo studio e la camera da letto. In queste sale, inoltre, si conservano anche gli ex-voto donati da migliaia di fedeli come segno di riconoscenza per le numerose grazie ricevute.
Cappella di San Francesco Borgia
Segue la cappella dedicata a San Francesco Borgia il quale, prima di entrare nella Compagnia di Gesù divenendone terzo Generale, era stato viceré di Catalogna e aveva sposato Eleonora de Castro, dalle quale aveva avuto otto figli. Distrutta dal terremoto del 1688, la cappella fu nuovamente decorata nel corso del Settecento: il nuovo altare, che a differenza di tutti gli altri presenti in chiesa rivela una forma non più parallelepipeda ma leggermente convessa, in ottemperanza al mutato clima artistico, fu realizzato nel 1754 dai marmorari della famiglia Cimafonte; coevo è il dipinto soprastante con San Francesco Borgia che adora il Sacramento, opera di Sebastiano Conca, che vi appose sia la firma che la data di esecuzione.
A fine secolo Angelo Mozzillo affrescava figure di Angeli nella volta della cappella, mentre Antonio della Gamba firmava le due Virtù nelle semilunette ai lati del finestrone. Singolare è la balaustra che chiude la cappella, realizzata nel 1754 da Agostino Chirola il quale, sulla superficie di appoggio, intarsiò con marmi policromi i principali attributi iconografici del santo: il galero, ovvero il cappello rosso a tesa larga che ricorda il suo rifiuto del titolo cardinalizio, e il calice, che allude invece alla sua devozione per l’Eucarestia.
Cappella del Sacro Cuore
La cappella successiva è dedicata al Sacro Cuore di Gesù. Nel 1600 Belisario Corenzio vi affrescava Storie di Angeli sia nella volta (Santi in Gloria intorno all’Agnello, la Caduta di Lucifero, la Parabola del Figliol Prodigo), sia nelle semilunette ai lati del finestrone(il Sogno di Giacobbe e la Lotta di Giacobbe con l’Angelo), sia sulle due grandi pareti laterali con, a sinistra, Cristo servito dagli Angeli e, a destra, il Battesimo del Centurione Cornelio.
La decorazione marmorea si deve ai fratelli Mario e Costantino Marasi che la realizzarono nel 1605 e che costituisce uno dei primi esempi a Napoli di commesso marmoreo impiegato su così vasta scala: le pareti, il pavimento e la balaustra esterna sono rivestiti da un fitto intarsio policromo, i cui motivi geometrici sono riconducibili all’influenza della scultura toscana di fine Cinquecento.
La presenza di una seconda balaustra situata all’interno si deve al fatto che, seppure per un periodo limitato, la cappella fu sede della Congregazione dei Nobili i cui membri, durante le funzioni liturgiche ivi celebrate, sedevano proprio tra una balaustra e l’altra. Nel secondo dopoguerra, in occasione di lavori di restauro che interessarono l’intera chiesa, anche la cappella fu ammodernata: in quella circostanza, il dipinto dell’altare di Giovan Bernardo Azzolino fu spostato sulla parete sinistra del cappellone di Sant’Ignazio di Loyola e sostituito da una statua del Sacro Cuore di Gesù del 1904, copia di quella che si venera nella basilica parigina di Montmartre.
Di recente realizzazione sono le due statue ai lati dell’altare, raffiguranti gli iniziatori del culto del Sacro Cuore di Gesù: a destra, Santa Margherita Maria Alacoque e, a sinistra, il gesuita San Claudio de la Colombiere, suo confessore.
LA TRIBUNA (Abside)
La tribuna, fulcro liturgico della chiesa, esalta la figura della Madonna Immacolata sia attraverso il già citato ciclo ad affresco di Massimo Stanzione, sia attraverso l’arredo scultoreo, che trova il suo cardine nell’effigie marmorea della Vergine Immacolata, scolpita da Antonio Busciolano nel 1859. Le figure di Angeli ed il Globo in lapislazzuli su cui si erge la statua è quanto resta di una spettacolare composizione scultorea del Settecento.
La statua della Madonna, inserita all’interno di un’ampia e profonda nicchia, è al centro della scenografica parete di fondo in marmi policromi, realizzata nella prima metà del Seicento da Cosimo Fanzago, che scandì la superficie parietale con sei colonne d’alabastro: le centrali fiancheggiano la suddetta nicchia, mentre le laterali inquadrano due altorilievi, raffiguranti Sant’Ignazio e San Francesco Saverio, della bottega del Vaccaro, e le statue di San Pietro e di San Paolo, opera del Busciolano.
[Foto Eleonora Ferraro] |
Quanto all’altare maggiore, costituito da marmi, bronzo e pietre dure, la sua realizzazione per alterne vicende subì notevoli ritardi rispetto alla decorazione dell’intera chiesa: solo nel 1851, infatti, Ercole Grossi, gesuita ferrarese, ne ideò il progetto definitivo realizzato poi da Raffaele Postiglione e da una numerosa equipe di marmorari.
L’altare si articola su tre fasce: il basamento reca tre bassorilievi in bronzo raffiguranti, da sinistra verso destra, la Cena in Emmaus, l’Ultima Cena e Cristo che promette l’Istituzione dell’Eucarestia; la fascia centrale è arricchita da decori vegetali con girali d’acanto rincorrentisi e, infine, sul dossale sei busti di santi legati al culto dell’Eucarestia si sporgono da nicchie a forma di conchiglia. Procedendo da sinistra vi scorgiamo infatti le figure di Giuliana da Liegi, Stanislao Kostka, il Beato Lanfranco da Canterbury, Tommaso d’Aquino, Francesco Borgia e Gaetano da Thiene.
L'Organo
Da ricordare sono anche gli organi: quello di sinistra, del 1640 circa, è di Vincenzo Miraglia e non è più utilizzabile, mentre quello di destra, del 1650, è stato realizzato da Pompeo De Franco. Quest’organo, restaurato nel 1986 da Gustavo Zanin, è oggi perfettamente funzionante con 52 registri e 2.523 canne. La presenza degli organi non era prevista nel progetto originario: il canto dell’Ufficio Divino e della Messa non era infatti consentito dalle Costituzioni di Sant’Ignazio di Loyola poiché si riteneva che potessero sottrarre tempo alla cura delle anime.
La presenza nel Gesù Nuovo dei due strumenti musicali è da ricondurre, probabilmente, alle sollecitazioni di Isabella Feltria della Rovere, fondatrice della chiesa, e del viceré Duca di Osuna.
Infine, dal 1995 a destra dell’altare maggiore è stato collocato un Crocifisso ligneo della metà del Trecento, proveniente dalla chiesa dei Santi Andrea e Marco a Nilo, affidato ai gesuiti e da questi ultimi fatto restaurare.
NAVATA SINISTRA
Cappella di S. Francesco De Geronimo
Procedendo nel percorso di visita dall’altare verso l’ingresso, nella navata sinistra si incontra la cappella dedicata a San Francesco De Geronimo. L’impianto è speculare a quello della cappella del Sacro Cuore di Gesù per la presenza della doppia balaustra, che testimonia come anche questo ambiente sia stato sede di una congregazione, nella fattispecie quella dei Mercanti. A differenza delle altre cappelle della chiesa, l’altare è sovrastato da un gruppo scultoreo raffigurante la Predicazione di San Francesco De Geronimo, modellato nel 1932 da Francesco Jerace.
Tuttavia, a rendere davvero unica la cappella sono le due grandi lipsanoteche che ne ricoprono interamente le pareti laterali e che furono commissionate da Isabella Feltria della Rovere, principessa di Bisignano, per un duplice motivo: accogliere all’interno di un unico ambiente i numerosi busti-reliquiario già presenti in chiesa e dare degna sistemazione ad altre reliquie, che ella stessa aveva donato ai Gesuiti dopo averle ricevute dal cardinale Odoardo Farnese.
Le lipsanoteche, in legno intagliato e dorato, furono realizzate alla fine del Seicento. I lavori furono affidati a Giovan Domenico Vinaccia che le concepì come due grandi scrigni parietali ospitanti ciascuno 34 busti reliquiario, disposti su cinque file di palchi. Al centro, una nicchia di maggiori dimensioni accoglie sulla parete destra la statua di San Francesco Saverio e, sulla parete sinistra, quella di Sant’Ignazio di Loyola.
Le 70 sculture, scolpite in un materiale duttile e “caldo” come il legno, da sempre tramite d’elezione per la realizzazione di simulacri particolarmente naturalistici in grado di coinvolgere emotivamente il fedele, nella loro varietà sia espressiva che gestuale sembrano invitare i fedeli al culto dei martiri. Ad accrescere il fascino della cappella erano anche gli affreschi di Francesco Solimena di cui, dopo l’intervento di Giuseppe Petronsio che nel 1842 ridipinse la volta con la Madonna e San Francesco de Geronimo, restano solo i quattro Angeli Tubicini e i Serafini alla base della volta.
Cappella del Crocifisso e di San Ciro
[Foto Eleonora Ferraro] |
La cappella seguente fu eretta dai Gesuiti in ricordo della loro prima benefattrice, Roberta Carafa, duchessa di Maddaloni. Fin da allora la cappella fu dedicata al Crocifisso che, affiancato dalla Madonna Addolorata e da San Giovanni Evangelista, si ammira ancora oggi sull’altare. Le tre sculture lignee sono caratterizzate da un accentuato espressionismo, sottolineato da un’intensa cromia.
Il gruppo è attribuito a Francesco Mollica, artista del secondo Cinquecento. Ai lati dell’altare sono due nicchie ospitanti altrettante statue lignee: a destra quella ottocentesca di San Giovanni Edesseno, le cui reliquie si conservano in un’urna cineraria romana del IV secolo, proveniente dall’area di Villa Melecrinis a Napoli, e, a sinistra, quella settecentesca di San Ciro, medico ed eremita egiziano, le cui reliquie, riposte nell’urna sotto l’altare, richiamano ancora oggi centinaia di fedeli.
La decorazione marmorea, compresa la balaustra finemente intarsiata con Simboli della Passione, risale alla prima metà del Seicento con successivi interventi di Dioniso Lazzari (1659) e di Giuseppe Bastelli (1734-1735), che eseguì il pavimento sotto la direzione di Muzio e Giovan Battista Nauclerio.
Gli affreschi della cappella sono stati realizzati tra il 1684 e il 1685 da Giovan Battista Beinaschi, che contestualmente decorò anche la cupoletta esterna con il Passaggio del Mar Rosso e i profeti Daniele, Geremia, Ezechiele e Isaia nei pennacchi. Tutti gli affreschi risultano pesantemente compromessi da antichi restauri.
Cappella di Sant’Ignazio di Loyola
A seguire, il cappellone di Sant’Ignazio di Loyola, fondatore della Compagnia di Gesù, corrisponde al braccio sinistro del transetto. Lo spazio architettonico, fu ridisegnato da Cosimo Fanzago, che vi lavorò a fasi alterne dal 1637 al 1655, coadiuvato da Costantino Marasi e Andrea Lazzari.
L’artista, attraverso l’uso di volumi contrapposti, sottolineati da un continuo e sapiente gioco di luci ed ombre, crea nuovi spazi per accogliere le opere pittoriche e quelle scultoree, esaltandone il significato religioso e spirituale. Sue sono anche le statue dei profeti David e Geremia, eseguite tra il 1643 e il 1654. Sull’altare, al posto della tela di Girolamo Imparato con la Visione di Sant’Ignazio a la Storta, oggi spostata sulla parete destra, è stato collocato il dipinto della Madonna col Bambino tra Sant’Ignazio e San Francesco Saverio di Paolo de Matteis, realizzato nel 1715 per la chiesa dei Gesuiti di Taranto (in seguito passata agli Olivetani).
In alto vi sono le tele di Jusepe Ribera dipinte tra il 1643 e il 1644: al centro la Gloria di Sant’Ignazio e, a destra, Paolo III approva la regola del Santo. La terza opera dell’artista spagnolo con Sant’Ignazio che scrive il Libro degli Esercizi Spirituali, distrutta nel 1943 da un bombardamento, è stata sostituita dalla Madonna col Bambino e Sant’Anna, di autore ignoto del XVI secolo, proveniente dalla chiesa di Sant’Aniello a Caponapoli. Sulla parete sinistra è collocata la Santissima Trinità e Santi di Giovan Bernardo Azzolino del 1617, che un tempo decorava l’altare della cappella del Sacro Cuore di Gesù.
Cappella della Natività
La cappella successiva è dedicata al tema della Natività del Signore, illustrato nella pala d’altare da Girolamo Imparato nel 1602. L’ambiente conserva intatto il ricco arredo scultoreo di inizio Seicento, che vide impegnati nella sua realizzazione alcuni dei più illustri esponenti del tardo manierismo toscano come Pietro Bernini, cui si deve, a destra dell’altare, il San Matteo e l’Angelo, eseguito nel 1601, e Michelangelo Naccherino, allievo del Giambologna, autore nello stesso anno del Sant’Andrea, sul lato sinistro della mensa eucaristica.
Lo stile sobrio e composto di tutte le sculture rimanda ad un pacato classicismo e ad un chiaro equilibrio formale che ben riflette quel generale clima devozionale che caratterizza gran parte della produzione artistica post-tridentina. Il rivestimento marmoreo delle pareti, il pavimento e la balaustra furono realizzati da Costantino Marasi tra il 1600 e il 1602. Nel 1601 Belisario Corenzio affrescò l’interno della cappella con le scene dell’Annuncio ai Pastori, l’Adorazione dei Magi, l’Adorazione dei Pastori e le figure dei profeti David e Isaia, sia la cupoletta esterna con Storie di Gesù e Maria e i pennacchi con le Virtù. Da ammirare è anche il gruppo dell’Angelo Custode, in legno scolpito, dipinto e dorato.
La statua, originariamente collocata in Sacrestia, fu danneggiata da un incendio nel 1962. Dopo il restauro del 2000, si decise di agevolarne la pubblica fruizione spostandola in questa cappella. Il gruppo, tradizionalmente ritenuto opera di Francesco Mollica, è stato recentemente attribuito ad Aniello Stellato, intagliatore documentato a Napoli dal 1605 al 1642, e ad Orazio Buonocore, che si sarebbe occupato della sua doratura.
Cappella dei Santi Martiri
L’ultima cappella è dedicata ai Santi Martiri, fu decorata a spese di Ascanio Muscettola, principe di Leporano, e terminata a cura del figlio Sergio nel 1613. Il tema del martirologio informa l’intero ambiente, come sottolineato sia dall’arredo scultoreo che da quello pittorico: Giovan Bernardo Azzolino intorno al 1615 realizzava la pala d’altare con la Madonna, il Bambino e Santi Martiri, mentre sulle pareti laterali, entro nicchie marmoree, vi sono due statue scolpite nel 1613 da Girolamo D’Auria in collaborazione con Tommaso Montani.
[Foto Eleonora Ferraro] |
Si tratta di Santo Stefano, primo martire della Chiesa, ucciso per lapidazione, e di San Lorenzo, che fu arso vivo durante le persecuzioni dell’imperatore Valeriano. Il rivestimento marmoreo della cappella, policromo e a motivi geometrici, si deve a Costantino Marasi, che vi lavorò dal 1610 al 1618. Completano la decorazione gli affreschi, sempre di soggetto martirologico, eseguiti nel 1613 da Belisario Corenzio sia all’interno della cappella che nella campata esterna.
In quest’ultimo caso, il restauro effettuato nel 1995 ha reso più agevole la lettura di quattro Santi Crocifissi, raffigurati nei pennacchi, e, nella cupoletta, della Trinità con Angeli e Schiere di Santi Martiri. Tra questi, ben riconoscibili per il loro tradizionale abito sono i cinque gesuiti noti come i “martiri de la Salsette”, dal nome della penisola indiana dove furono martirizzati nel 1583.
Tra i cinque missionari, beatificati nel 1893 da Leone XIII, si distingue, con il collo segnato da fendenti, Rodolfo Acquaviva, la cui nobile famiglia dei duchi d’Atri finanziò l realizzazione degli affreschi all’inizio del XVII secolo. Infine, uscendo dalla cappella, sul primo pilastro che separa la navata centrale da quella laterale si può ammirare l’unico monumento funebre della chiesa, quello del cardinale Francesco Fini, morto nel 1743, la cui realizzazione è stata attribuita a Francesco Pagano.
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